LO STUDIO COME MACCHINA CREATIVA
Quando si pensa a un film, si immaginano attori, registi e scene memorabili. Ma prima che la cinepresa inizi a girare, c’è un mondo nascosto che prende vita: lo studio cinematografico, e nel 1934, le cigarette cards della serie How Films Are Made ci portano proprio lì, nel cuore pulsante della produzione, dove tutto comincia.
La Gaumont-British Picture Corporation aveva appena rinnovato il suo studio principale a Shepherd’s Bush, investendo circa 750.000 sterline per renderlo una vera e propria fabbrica del sogno. Sei nuovi teatri di posa, laboratori all’avanguardia e tecnologie meccaniche per supportare l’artigianato umano: un tempio moderno dedicato al cinema.
Le carte illustrano questo universo con sorprendente precisione. Una mostra il reparto falegnameria, dove quattro carpentieri costruiscono un obice di legno per il film I Was a Spy. Un’altra ci porta nel reparto intonacatori, intenti a modellare una replica della torre dell’orologio del Palazzo di Westminster per Friday the 13th. Questi mestieri non sono accessori: sono fondamentali per dare corpo e credibilità all’immaginario cinematografico.
Nel reparto modelli, si costruisce in scala una stazione ferroviaria, utile al regista e al direttore della fotografia per pianificare le riprese. È un lavoro di precisione, dove ogni dettaglio conta. Le carte non celebrano il glamour, ma la competenza: mani esperte, officine luminose, strumenti ben disposti.
Quello che emerge è una visione del cinema come sforzo collettivo, dove ogni reparto contribuisce alla costruzione di un mondo. Lo studio non è solo un luogo fisico, ma un organismo vivo, fatto di persone, idee e materiali. E le carte, con le loro illustrazioni e descrizioni, ci invitano a guardare oltre lo schermo, a riconoscere il valore di chi lavora dietro le quinte.
PRIMA DEL SUONO
Il seme tecnico del cinema moderno
Prima che il microfono boom entrasse in scena, prima che le sale di controllo del suono diventassero il cuore pulsante degli studi, il cinema muto aveva già iniziato a costruire il suo arsenale tecnico. E alcune cigarette cards tedesche degli anni ’20 ci raccontano proprio questo: un mondo fatto di ingegno, meccanica e visione.
Le carte tedesche, spesso meno celebrate rispetto a quelle britanniche, mostrano con grande dettaglio i macchinari e le tecniche usate nei primi studi cinematografici.
L'Ultimo Uomo (1924) (viene filmato con treppiede fisso)
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
Questa card raffigura un operatore con una cinepresa a manovella, il corpo rigido, quasi in simbiosi con la macchina, ogni giro di manovella è calibrato, ogni gesto è parte di una coreografia invisibile.
L'Ultimo Uomo (1924) (viene filmato con treppiede fisso)
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
La cinepresa, inizialmente montata su un Kamerastativ feststehend (treppiede fisso), si libera e comincia a muoversi nello spazio, seguendo l’attore Emil Jannings. È questo il vero salto tecnico e visivo che avvenne con registi come F.W. Murnau, che nel suo "L’ultimo uomo" rivoluzionò il modo di concepire la macchina da presa. Lo spettatore non restava più fermo: camminava con l’attore, lo seguiva per le scale, attraversava la strada al suo fianco, entrava nell’inquadratura. Per ottenere questo effetto, il cameraman indossava un telaio mobile fissato al corpo, in cui era montata la cinepresa. Il risultato era una macchina che danzava, correva, girava, come l’occhio dello spettatore. È il momento in cui il cinema smette di essere teatro filmato e diventa visione dinamica. Questa tecnica, pionieristica per l’epoca, anticipa il moderno Steadicam. Ma nel 1924, era pura invenzione, un gesto tecnico che diventava linguaggio visivo. La scena è un manifesto, il cinema può muoversi, può respirare, può guardare come l’occhio umano.

L'Ultimo Walzer (1927) (viene filmato con un triciclo)
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
Un altro magnifico esempio di invenzione visiva ci arriva dal film muto "Der letzte Walzer" (1927), diretto da Arthur Robison, con protagonisti Liane Haid, Willy Fritsch e Suzy Vernon, tratto dall’omonima operetta di Oscar Straus. In una celebre sequenza, la cinepresa fu montata su un triciclo, guidato da tre operatori con il cameraman a bordo, che ne controllavano il movimento seguendo il ritmo del valzer. Il risultato fu una ripresa fluida e musicale, dove la macchina da presa partecipava alla danza, trasformando l’inquadratura in una coreografia visiva. È il cinema che comincia a muoversi con grazia, anticipando lo stile lirico e mobile che avrebbe influenzato generazioni di registi.
Faust (1926) (viene filmato su binari che ricordano le montagne russe)
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
In Faust, Carl Hoffmann costruì una montagna russa per simulare il volo di Mefistofele.
Queste invenzioni non erano solo tecniche: erano visioni meccaniche, strumenti per dare al pubblico la sensazione di muoversi, di volare, di essere dentro il film. Alla regia, Murnau esplora i confini estremi delle possibilità cinematografiche, concentrandosi in particolare sugli effetti visivi, come le doppie esposizioni. La scena mantiene un equilibrio sottile tra l’espressionismo, che dopo Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (1920) forgia l’identità del cinema tedesco, e la pittura romantica, con richiami evidenti a Caspar David Friedrich e Lovis Corinth, soprattutto nelle riprese in esterni.
La “liberazione della cinepresa” assunse infine forme così audaci che il cameraman non riusciva più a seguire tutti i movimenti e i voli del suo apparecchio, e quindi non poteva più girare la manovella con la mano. Già durante l’epoca del cinema muto, i costruttori cercarono di sollevare il cameraman dal compito di girare manualmente, affinché potesse tenere la cinepresa liberamente con entrambe le mani e filmare senza treppiede.
Si sperimentarono motori ad aria compressa, meccanismi a molla e motori elettrici per alimentare la cinepresa mobile. Il Dr. Mendel ha espresso in modo molto poetico il concetto di cinepresa in movimento:
“Il vecchio Archimede chiedeva solo un punto d’appoggio, e con la sua leva avrebbe sollevato il mondo. Noi, al contrario, vogliamo finalmente abbandonare il punto fisso, per poter ‘muovere’ la nostra Terra e i suoi abitanti in un modo completamente nuovo.”
Gli studi tedeschi dell’epoca erano laboratori di ingegno, pieni di slitte, carrelli, ascensori e binari, pensati per liberare la cinepresa dalla staticità e trasformare il cinema in movimento puro.
Il Primo Piano: L'Arte di Guardare Dentro
Il primo piano è molto più di una semplice inquadratura. È una lente sull’anima, un ponte emotivo tra lo spettatore e il personaggio, una tecnica che ha trasformato il linguaggio cinematografico sin dai suoi albori.
Il primo piano nasce con il cinema muto, quando le parole non potevano raccontare ciò che gli occhi potevano esprimere. Registi come D.W. Griffith ne intuirono il potenziale: un volto ingrandito sullo schermo poteva trasmettere dolore, amore, paura tutto senza dialoghi. Il primo piano, nel linguaggio cinematografico, è un’inquadratura che si concentra sul volto dell’attore, solitamente dalle spalle in su. Quando si passa al primissimo piano, lo sguardo della cinepresa si fa ancora più ravvicinato, stringendo su occhi, bocca, dettagli che rivelano l’essenza dell’espressione. Questa scelta registica non è mai casuale: è un gesto intenzionale che serve a sottolineare un’emozione, a creare un senso di intimità tra personaggio e spettatore, e a guidare l’attenzione verso ciò che davvero conta nella scena.
Operatore sul set riprende un intenso primo piano di Fritz Rasp in Frau im Mond (1929), sotto una luce calibrata e sguardi concentrati.
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
Nel set tratto da Frau im Mond, si percepisce chiaramente quanto sia cruciale la preparazione per un primo piano efficace. Il trucco deve essere impeccabile, la luce calibrata con precisione, e l’attore deve essere pronto a sostenere l’ingrandimento emotivo che questa inquadratura comporta. Il volto, così esposto, diventa una superficie narrativa, un campo di tensione e significato.
Gerda Maurus in Frau im Mond (1929) - IMBD
Dal punto di vista psicologico, il primo piano ha un potere straordinario: ci costringe a guardare, a non distogliere lo sguardo. È come se il personaggio ci parlasse direttamente, rompendo la barriera dello schermo. Questo contatto ravvicinato genera un legame profondo, quasi viscerale, che rende il cinema un’esperienza immersiva e personale. Non si tratta solo di vedere: si tratta di sentire.
Nel reparto luci, le carte illustrano l’uso di riflettori a carbonio, enormi e rumorosi, capaci di generare fasci intensi ma difficili da controllare. I tecnici dovevano improvvisare con pannelli riflettenti e tende nere, anticipando le sofisticate batterie di luci che vedremo nelle carte britanniche del 1934.
Dipingere con la luce: l’evoluzione dell’illuminazione nel cinema
Nel tempo, il termine “film” ha lasciato sempre più spazio all’espressione “gioco di luce”, a sottolineare quanto la distribuzione di luce e ombra sia centrale nell’arte cinematografica. Fin dai tempi di Rembrandt, la luce è stata un elemento prezioso per creare atmosfera, evocare emozioni e raccontare storie senza bisogno di parole. Questa connessione profonda tra luce e narrazione si è trasformata in una vera e propria tecnica artistica, capace di definire l’identità visiva di ogni produzione.
All’inizio bastava la luce del giorno che filtrava dalle finestre dello studio, o la luce solare durante le riprese all’aperto, per girare le prime sequenze. Era un cinema pionieristico, che sfruttava le condizioni naturali per catturare immagini autentiche. Ma con l’evolversi del pubblico e delle sue aspettative, si rese presto necessario illuminare artificialmente le scene.

L'illuminazione della scena del film "Die Yacht der Sieben Sünden" Il Film venne girato presso gli studi cinematografici UFA di Neubabellsberg nel 1928
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
L’ingresso delle lampade negli studi segnò una svolta: il desiderio di effetti fotografici più sofisticati spinse l’industria a innovare. Dalle semplici lampade ad arco e a mercurio si passò alle potenti lampade Jupiter, con 6, 8, 12 o più archi luminosi orizzontali. Questi strumenti permisero un controllo più preciso dell’illuminazione, adattandola alle esigenze di ogni inquadratura. I riflettori si perfezionarono, i faretti e gli stativi divennero indispensabili per rafforzare le zone meno illuminate, offrendo ai cineasti una gamma di possibilità creative sempre più ampia.
Illuminare non significa semplicemente “fare luce”. È un’arte che richiede equilibrio: né troppa né troppo poca, con le lampade posizionate alla giusta distanza dai soggetti. La luce deve esaltare senza sovrastare, modellare lo spazio e guidare lo sguardo dello spettatore. È il frutto di un lavoro meticoloso, che unisce sensibilità artistica e competenza tecnica.
L'illuminazione della scena in studio
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
Il tecnico delle luci è un vero artista, capace di scolpire lo spazio con strumenti che vanno dalle lampade da mezzo watt ai faretti ad arco, dalle luci a vapori di mercurio a quelle a incandescenza. Il suo obiettivo è far emergere i personaggi come protagonisti assoluti, tridimensionali e integrati nell’ambiente. Per evitare l’effetto “attaccati allo sfondo”, si ricorre alla contro-illuminazione: un faretto posizionato dietro la scena emette un fascio diagonale che crea un contorno luminoso attorno alle figure. In alternativa, si usano riflessi da superfici bianche, come teli di garza fuori campo, che illuminano delicatamente il volto dell’attore. Queste tecniche sono oggi standard, soprattutto nelle riprese en plein air, dove i faretti perfezionano l’effetto fotografico adattandosi alla luce naturale.
Specchi e veli di garza bianca riflettono la luce sul personaggio principale. Ripresa in esterno a Tunisi per il film "Geheimnisse des Orients" nel 1928
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
Sul set, la luce diventa uno strumento attivo. Nella ripresa per Geheimnisse des Orients, ad esempio, la luce viene riflessa sulla figura principale con specchi e schermi bianchi di garza, amplificando profondità e contrasto. Il cameraman ha un ruolo cruciale: dirige la luce con precisione, decide come valorizzare il soggetto, crea l’atmosfera giusta per ogni scena che sia drammatica, intima o spettacolare. Durante le riprese, è lui a pensare, vedere, sentire e agire. Con una mano aziona la macchina da presa, con l’altra dirige e corregge. Quando la scena è girata, tutti si ritirano: attori nei camerini, tecnici nelle officine, regista nel suo ufficio. Ma il cameraman resta. Rivede la scena, controlla l’illuminazione, la messa a fuoco, l’armonia tra movimenti e inquadrature. Decide se rifare la scena o se è pronta per il montaggio. È lui l’artefice delle immagini che appariranno sullo schermo. È lui a creare l’illusione che cattura lo spettatore.
Questa evoluzione dell’illuminazione nel cinema non è solo una questione tecnica, ma un viaggio artistico che continua a evolversi. Dalle prime luci naturali ai complessi sistemi moderni, il “gioco di luce” rimane il cuore pulsante di ogni film, un linguaggio universale che parla direttamente alle emozioni dello spettatore.
La Regia Cinematografica: Forma, Funzione e Poetica del Gesto Creativo
La regia cinematografica è il centro nevralgico dell’intero processo filmico. È il luogo in cui convergono le intenzioni narrative, le scelte estetiche e le dinamiche produttive. Il regista non è semplicemente colui che dirige le operazioni sul set, ma è l’autore invisibile che imprime al film una visione, una coerenza interna, un’identità stilistica. Attraverso la regia, il cinema diventa linguaggio, e il linguaggio diventa esperienza.
La funzione del regista si articola su più livelli. In primo luogo, egli interpreta la sceneggiatura, ne coglie le potenzialità visive e ne definisce la struttura narrativa. Questo processo non è mai neutro: ogni regista legge il testo attraverso la propria sensibilità, la propria cultura visiva, il proprio immaginario. La regia è quindi un atto di traduzione, ma anche di trasformazione. Il testo scritto si fa immagine, suono, ritmo, spazio.
In secondo luogo, il regista coordina il lavoro dei reparti tecnici e artistici. La fotografia, la scenografia, i costumi, il suono, il montaggio: ogni elemento concorre alla costruzione dell’universo filmico, e il regista ne è il punto di riferimento. La sua visione guida le scelte, orienta le soluzioni, armonizza le differenze. La regia è anche leadership, capacità di ascolto, mediazione tra esigenze creative e vincoli produttivi. Ma la regia è soprattutto gesto artistico. È nella direzione degli attori, nella composizione dell’inquadratura, nella modulazione della luce, che il regista esprime la propria poetica. Ogni decisione registica è un atto intenzionale, un segno che contribuisce al significato complessivo dell’opera. Il regista non mostra semplicemente ciò che accade: lo interpreta, lo scolpisce, lo trasfigura. Il cinema, sotto la sua guida, non è mai una riproduzione della realtà, ma una sua reinvenzione. Questa dinamica tra regista e attore, tra visione e incarnazione, conferma quanto la regia sia un’arte del dettaglio. Il gesto, anche il più semplice, può diventare portatore di significato se guidato con consapevolezza.

Joe May dirige Gustav Fröhlich in Homecoming (1928)
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
Emblematica, in questo senso, è una figurina del 1935 che ritrae il regista Joe May mentre mostra a Gustav Fröhlich come mangiare le patate in una scena del film Homecoming, girato nel 1928. Il gesto quotidiano, apparentemente banale, viene studiato, provato, interpretato. Non si tratta di “mangiare” in senso funzionale, ma di farlo in modo espressivo, coerente con il personaggio e con il tono della scena. Il regista interviene fisicamente, dimostrando il movimento, la postura, il ritmo. In quel momento, la regia si fa corpo, si fa gesto incarnato.
Ancora più eloquente è il doppio documento visivo che ci arriva dal set di Metropolis (1927), capolavoro di Fritz Lang.
Fritz Lang dirige Heinrich George e Brigitte Helm – Metropolis (1927)
VOM WERDEN DEUTSCHER FILMKUNST - DER STUMME FILMCIGARETTEN BILDERDIENST - ALTONA-BAHRENFELD (1935)
(collezione personale)
In una prima figurina, Lang mostra all’attore Heinrich George come catturare Brigitte Helm: il regista interpreta il gesto, lo scolpisce con il proprio corpo, lo trasmette come un codice fisico. Nella seconda figurina, George esegue la scena, riproducendo il movimento con intensità e precisione. È una sorta di “prima e dopo” che rivela il processo creativo della regia: l’idea si fa gesto, il gesto si fa interpretazione, l’interpretazione si fa immagine. In questo passaggio, il regista non è solo guida: è artista, è coreografo, è scultore dell’umano.
Queste immagini confermano quanto affermava Joe May già nel 1919, in una riflessione che sintetizza la sua concezione della regia: “Regia è organizzazione. Per me la regia è l'arte di riunire le persone di cui hai bisogno e animarle con uno spirito raffinato. Un buon regista è qualcuno che sa creare un’organizzazione così generosa, gli ingranaggi di una macchina che funziona e al cui timone siede.” In queste parole si coglie la doppia natura della regia: da un lato, come arte del coordinamento, della costruzione di un sistema produttivo efficiente e armonico; dall’altro, come gesto poetico, capace di infondere spirito e significato a ogni componente del film. Il regista è il timoniere, ma anche il motore invisibile che dà vita alla macchina cinematografica
Anche il montaggio era un’arte fisica: le carte mostrano tavoli pieni di pellicola, forbici, colla e lente d’ingrandimento. Il montatore non era solo un tecnico, ma un narratore invisibile, capace di dare ritmo e senso alle immagini mute.
Queste carte ci ricordano che il cinema non è nato con il sonoro, ma con la meccanica della visione. Ogni innovazione successiva dal retro-proiettore alla registrazione sincrona ha preso spunto da queste prime intuizioni. Il cinema muto ha posto le fondamenta: ha insegnato a costruire set, a muovere la macchina da presa, a modellare la luce, a raccontare con il montaggio.
Ecco perché, nel nostro viaggio “Come si fa un film”, è giusto partire da lì: da quelle officine tedesche, da quei tecnici silenziosi, da quelle carte che parlano senza parole. Perché il cinema, prima di essere suono e colore, è stato gesto e ingegno.